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18 febbraio 2016

Intervista a Massimo Conti



Posizionata a pochi passi dal rifugio che ogni giorno mi accoglie a fine giornata, c'è una ferrovia abbandonata, quella che una volta da Fano arrivava fino a Urbino.
Questa ferrovia ha sempre suscitato in me stupore e curiosità. Poi un giorno ho scoperto il libro "Traversine", che la racconta, e uno scrittore unico nel suo genere: Massimo Conti.
Quel giorno è nata una passione per questo scrittore viandante, che mi ha portato ad aver l'onore di essere citata nella ristampa di Traversine e a conoscere (questa volta non solo virtualmente) l'autore in occasione dell'uscita del secondo libro, "Il mare non ti parlerà".
Massimo Conti è un autore meritevole e una persona incantevole. Non potevo, quindi, non intervistarlo.

Perché hai cominciato a scrivere libri?
Scrivo da quando frequentavo le elementari, forse perché mia madre, grande lettrice, aveva riempito la casa di libri, che ho ereditato, e questi sembrava quasi mi sfidassero. Usavo incollare assieme due o tre quaderni che rivestivo di stoffa chiara per simulare la copertina con il titolo in bella vista: li riempivo delle gesta di un mio alter ego alle prese con avventure alla guida di un vecchio aeroplano o a bordo di un astronave.
Poi le agende hanno presso il posto, qualche anno più tardi, di quei quaderni sdruciti: vi annotavo frasi che mi avevano colpito, pensieri sparsi, pene d’amore, disegni e quant’altro trovassi interessante annotare. Nel frattempo iniziai  prima a camminare nelle montagne dietro casa e poi a viaggiare e raccontavo di tutto ciò. Scrivere mi è venuto spontaneo come credo succeda a molti; trasformare questa inclinazione, o meglio necessità, in un libro è cosa più impegnativa. Ci sono riuscito a quasi 50 anni: semplicemente dovevo farlo per liberarmi di un'ossessione legata a un viaggio a piedi di due giorni al punto che ora non so più se sia la camminata che abbia  ispirato il libro o se esso esistesse già e aspettasse solo di manifestarsi attraverso quel viaggio. Nel frattempo avevo collaborato come giornalista ad una rivista, che ebbe breve vita, scritto un saggio su cinema e identità regionale e tirato su un po' di soldi come copywriter per un’agenzia di pubblicità.

Com’è nata l’idea di Traversine? E quando e perché hai deciso di diventare uni scrittore viandante?
Ho trascorso dieci anni della mia vita da adolescente a pochi passi da una ferrovia: la Porrettana.
Bolognese di origine, nel periodo che vissi a Fano rimasi colpito dai binari abbandonati della Metaurense che attraversano la città ormai come un corpo estraneo.
Un giorno di inizio primavera, senza altro scopo se non quello di starmene due giorni da solo a camminare, l’ho percorsa fino ad Urbino.
Da quel viaggio, come dicevo prima, una sensazione legata ad un’immagine che mi perseguitava e che ho dovuto mettere per iscritto per liberarmene, una catarsi: è stato il nucleo attorno al quale è cresciuto l’intero  libro. In fondo ho scritto un romanzo che mi sarebbe piaciuto leggere: avevo davanti a me un mondo che sentivo di dover descrivere. È questa urgenza che ti spinge a scrivere, a narrare storie: perché noi tutti siamo una narrazione.
Documentandomi per scrivere Traversine, ho scoperto poi un microcosmo che voleva far sentire la propria voce perché la tutela della memoria collettiva non  rimanesse solo uno slogan vuoto di contenuti.
Mi sono così reso conto che solo il procedere lento del viandante consente di osservare le cose e non soltanto limitarsi a guardarle; si riesce camminando a stabilire con l’ambiente un rapporto empatico.
Il viandante è un pellegrino, dal latino peregrinus, “straniero”, e come tale osserva il paesaggio con sguardo disincantato ma pellegrino è anche la conchiglia dalla forma caratteristica che comprovava  l’avvenuto pellegrinaggio a Santiago di Compostela.

Quant'è importante che una lettura smuova le coscienze?

Dovremmo avere noi tutti, scrittori e romanzieri, un debito di riconoscenza verso Roberto Saviano, il suo coraggio di giovane intellettuale nello scoperchiare, prima come giornalista e poi come scrittore, i sordidi patti non scritti tra il capitalismo malato, globalizzazione  e criminalità organizzata e nella sua capacità di trasformare tutto ciò in un opera d’arte.
Gomorra in questo senso è stato, secondo il mio modesto parere, un libro spartiacque per la capacità di sollecitare domande che è uno dei compiti della letteratura: la nostra cattiva coscienza e sempre troppo accomodante.

I tuoi libri sono popolati da personaggi meravigliosi, degni di romanzi di altri tempi. Sei rimasto in contatto con loro?
Le storie che raccogli dalla viva voce delle persone che incontri sono le didascalie del paesaggio che di per sé e muto. L’abilità di uno scrittore sta nel trovare il modo e il contesto giusti con cui dar risalto alle vicende personali dei singoli per sottolineare alcuni aspetti rispetto ad altri ed inserirli, come trame secondarie ma non meno significative, in un quadro narrativo omogeneo sottolineando nel contempo i diversi punti di vista. Alcune persone, Pierpaolo l’operaio della Fincantieri, e Giancarlo, il navigatore col moscone,  incontrati durante il viaggio a piedi lungo la costa marchigiana, sono stati al mio fianco nelle presentazioni de Il mare non ti parlerà.

Sia in Traversine che ne Il mare non ti parlerà l’incontro col passato, con quello che non c’è più, suscita sempre un sentimento di commozione. E il futuro? C’è speranza per questo paese?
Pensare al nostro passato e scriverne serve solo se conduce a una riflessione collettiva sugli effetti che hanno prodotto determinate scelte e sulle modalità con le quali si è progettato il futuro senza dimenticare il contesto socio-economico e politico in cui quelle stesse scelte sono state elaborate: è la verità che è semplice mentre gli errori sono complicati. La speranza di un mondo migliore, di un Italia migliore, per le future generazioni dipende in gran parte, ne sono pienamente convinto, dai comportamenti individuali, virtuosi, che come singoli atomi nella materia una volta messi in movimento possono scatenare l’energia necessaria al cambiamento.

Qual è il libro al quale sei particolarmente affezionato? E quale invece ti ha ispirato?
Sono due i libri che mi hanno formato: 1984 di George Orwell, la mia tesina di diploma, e le Affinità elettive di Goethe. Ma sono tanti altri che ho amato profondamente: I Buddenbrok, Il partigiano Johnny, Conversazione alla cattedrale di Vargar Llosa, per esempio, mentre non amo particolarmente Cent’anni di solitudine. Danubio di Claudio Magris è quello che considero il miglior libro di viaggio in assoluto.

E ora cosa stai leggendo?
Sono un lettore onnivoro: posso divorare in un giorno, uno dietro l’altro, due romanzi di Simenon o di Lansdale per poi mettermi a rileggere pagine della Recherche di Proust. Ho appena finito di leggere Una giornata di Ivan Denissovic di Solgenitsin e Sconosciute di Patrick Modiano.

Quali progetti ti aspettano in futuro?

L’ultimo capitolo della trilogia dei ”viaggi dialettali”, dopo Traversine e Il mare non parlerà: una camminata in Appennino alla ricerca del mondo del lavoro scomparso tra miniere di zolfo chiuse, gallerie ferroviarie trasformate in coltivazioni di funghi, archeologia industriale e crisi economica.

Un grazie a Massimo Conti per la disponibilità e alla Casa Editrice Aras, per avermelo fatto conoscere.

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